(Testi di Vincenzo Gattucci, storica guida emerita delle Grotte di Frasassi)
Questo museo speleo-paleontologico (tel. 073.290241) è stato inaugurato nel 2006. E’ un piccolo gioiello che custodisce preziosi reperti ritrovati nella zona di Frasassi e riunisce oggetti che si riferiscono a diverse discipline: la geologia, la speleologia, l’archeologia.
La geologia è la scienza che studia la composizione, la struttura e la storia e i processi evolutivi della terra, esaminandone i fenomeni chimici, fisici e biologici.
La speleologia studia scientificamente le grotte e le altre cavità del terreno.
Infine l’archeologia è la scienza che studia le civiltà, le culture umane del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante.
Allestito nei locali del cenobio benedettino dell’XI secolo adiacente all’abazia romanica, il Museo è oggi dislocato su tre piani. Il PIANO SOTTERRANEO ospita la sezione geologica, dedicata all’indagine e allo studio dell’origine e della formazione della Gola di Frasassi, con numerose immagini fotografiche volte ad illustrare il fenomeno carsico caratteristico di questa zona. Il PIANO MEDIANO comprende la sezione paleontologica. Qui è esposto nella prima sala dopo l’ingresso, l’ormai conosciutissimo ITTIOSAURO, insieme a tre pannelli esplicativi della natura del reperto, delle fasi relative al suo ritrovamento e recupero, dello studio in atto dopo il restauro. Il PIANO SUPERIORE ospita la sezione archeologica, con reperti dal Paleolitico all’età del ferro, tra i quali si segnalano i manufatti paleolitici venuti alla luce nelle tante grotte del territorio, il più antico cranio umano rinvenuto nella regione Marche e risalente all’8000 circa a.C. ed alcune urne cinerarie dell’età del bronzo provenienti dalla necropoli di Pianello di Genga.
La star del Museo è un famoso fossile, l’Ittiosauro di Genga.
Potrebbe ricordare un delfino, del quale probabilmente avere condiviso lo stile di vita, in realtà si tratta di un rettile e lo si può capire osservando le 2 paia di pinne (i delfini hanno solo il paio anteriore) e l’asse della coda che nei delfini è orizzontale mentre negli ittiosauri è verticale e nella parte superiore non ha alcun sostegno scheletrico.
Questo animale, era un attivo predatore, la sua dieta consisteva in pesci, calamari, polipi, all’interno degli stomaci di alcuni giovani esemplari di 1.5 metri di lunghezza, sono stati ritrovati fino a mezzo milione di becchi chitinosi provenienti da cefalopodi.
Da buon rettile sembra che fosse oviviparo e completamente adattato alla vita acquatica partoriva in mare.
Il ritrovamento
(Dal racconto di Gilberto Gattucci). 20 luglio 1976, giorno della scoperta di questo importante fossile della bella datazione di 160 milioni di anni, rinvenuto da un giovane dell’epoca, Luigino Colnaghi. Lui veniva nel nostro territorio a trovare la madre, in loc. Falcioni di Genga; ebbene, in una delle sue passeggiate si imbatte’ per caso in qualcosa di veramente strano, dei segni ben marcati su una “marna verde”, roccia sedimentaria di origine marina. In quell’epoca nel nostro territorio c’era il mare, basso di livello, luogo ideale di vita per questo terribile predatori dei mari. Nella zona si stava costruendo in loc. Camponocecchio di Genga la galleria artificiale della S.S. 76, l’Ancona-Roma quindi In seguito a questo ritrovamento e alla mia denuncia presso la Soprintendenza di Ancona, i lavori vennero sospesi. Passai una notte all’agghiaccio per la sorveglianza del fossile. Il fossile fu recuperato e, dopo una opportuna imbragatura, fu portato presso l’Asilo di Camponocecchio, successivamente a Verona per una Mostra e… a Roma, presso l’Università La Sapienza di Roma, per il restauro.
Pronto per essere ammirato.
Vedi il video di Gilberto Gattucci su Marta:
L’Ittiosauro di Genga
Ritrovato il 20 luglio del 1976 nei pressi di Camponocecchio da un giovane studente appassionato di paleontologia, secondo quella che è la versione degli abitanti del posto, il reperto fu recuperato nel settembre del 1976 attraverso un complesso e costoso lavoro volto a mantenerne l’integrità fisica. Alle operazioni preliminari di ripresa fotogrammetrica, la principale testimonianza oggi delle condizioni del reperto al momento del recupero, e di rivestimento in gomma siliconica, con la funzione di proteggere la superficie del fossile è seguito il lavoro di scavo di una trincea perimetrale di venti centimetri attorno al reperto e di creazione di una cerniera di lamiera pesante che contornasse il pezzo. Successivamente il blocco, del peso di sette tonnellate, è stato sollevato con il braccio di un cingolato pesante. Tuttavia, nonostante le spese e i lavori di prelevamento, l’Ittiosauro di Genga, dopo essere stato esposto alla Mostra dei vertebrati fossili italiani del 1980 a Verona, fu nuovamente collocato nell’abazia di San Vittore e cadde nel dimenticatoio per un lungo periodo; solo nel 1997 vennero effettuate, a carico della Sopraintendenza Archeologica per le Marche e del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università LA SAPIENZA di Roma, una ricognizione approfondita del reperto ed una prima fase esplorativa; le successive operazioni di preparazione del reperto al restauro hanno avuto inizio nel 1998, più di venti anni dopo il suo ritrovamento. Durante il restauro, sono state portate alla luce e consolidate circa 300 ossa, alcune delle quali sovrapposte, saldate tra loro, fratturate o parzialmente silicizzate. In vista della museificazione del reperto, si è ritenuto opportuno non intervenire su uno dei cinquantacinque settori in cui era stata suddivisa la base durante la fase preliminare, cosicché rimanesse una testimonianza delle condizioni del fossile al momento del ritrovamento e ciò fosse indicativo della mole e del tipo di lavoro svolto per riportarlo alla luce. Lo spessore di sedimento asportato nei settori contenenti reperti ossei è stato molto variabile, ma mediamente ha raggiunto il valore di cinque centimetri; nelle zone in cui non è stato riscontrato alcun elemento scheletrico, sono stati rilevati settori contenenti numerose ossa, talora disconnesse e parzialmente sovrapposte, per le quali è stato necessario un maggiore approfondimento. L’ittiosauro fa parte di quel gruppo di rettili marini che hanno subito un “adattamento secondario” rispetto ai rettili continentali dai quali discendono. L’Era Mesozoica, infatti, cioè l’intervallo di tempo tra 248 e 65 milioni di anni fa, nota al grande pubblico come l'”Era dei Dinosauri”, fu caratterizzata da un gran numero di gruppi di rettili che mostrano un adattamento alla vita dell’ambiente marino e delle acque interne che altro nmon è che un ritorno, secondario appunto all’ambiente di originaria provenienza del gruppo. Nel Mesozoico vi erano almeno tre insiemi principali di rettili marini, tutti derivanti da rettili continentali ma differenti tra loro per morfologia, tipo di locomozione e gruppo di origine: Plesiosauri, Ittiosauri e Mosasauri. Gli Ittiosauri in particolare, essendo tra i rettili quelli più adatti alla vita pelagica erano simili per dimensioni e forma ai grandi tonni, agli squali e ai delfini attuali; essi raggiunsero nel Giurassico il massimo della loro diffusione, presentando uno spettro piuttosto vasto di forme e dimensioni. Per quanto riguarda la classificazione di “Marta”, l’Ittiosauro di Genga, alcune considerazioni sono state tratte dallo studio dello scheletro e dalla misurazione del cranio: l’esemplare in esame sembrerebbe appartenere ad un gruppo di rettili marini, dall’aspetto simile ad un delfino, che aveva raggiunto un alto grado di adattamento alla vita acquatica, con sviluppo di un muso molto allungato e di grandi orbite. Della lunghezza di circa 3 – 3,5 metri, doveva essere un animale molto veloce nel movimento, grazie alla coda robusta , e con una elevata capacità di autocontrollo, che era assicurata dalla presenza di pinne e di arti trasformati in palette. I grandi occhi testimoniano la possibilità di utilizzare la vista come organo di sostegno alla predazione in condizione di scarsa visibilità. Anche se dotato di polmoni e quindi costretto regolarmente ad affiorare per respirare, era sicuramente in grado di scendere in pochi minuti ad alte profondità o di inseguire una preda in immersione continua per tempi lunghissimi, sebbene gli animali di cui si cibavano gli ittiosauri vivessero, in generale, a profondità non elevate. Geograficamente l’ambiente di vita dellIttiosauro di Genga era rappresentato da una zona pelagica nei dintorni di una piattaforma, simile a quella delle attuali Bahamas, il cosiddetto “ambiente di piattaforma”.
Altri straordinari reperti visibili in questo museo
Rocce e fossili
Nelle vetrine sono esposti dei campioni di rocce che appartengono a 13 formazioni geologiche disposti in ordine cronologico dalla più antica alla più recente. Le rocce provengono dalla zona di Frasassi che fa parte della catena montuosa dell’Appennino umbro-marchigiano. Si tratta di rocce sedimentarie perlopiù calcarei tutte originate in mare da fanghi depositati in un periodo compreso tra 200 e 10 milioni di anni fa, tra il periodo giurassico e il miocene.Ognuna delle formazioni rappresenta un preciso ambiente di deposizione.
I fossili esposti rappresentano la grande varietà di organismi vissuti in questi antichissimi mari. Sono splenditi esemplari di ammoniti, molluschi cefalopodi dal guscio a spirale, vissuti nel mesozoico ed estinti circa 65 milioni di anni fa insieme ai grandi rettili come dinosauri e ittiosauri. Nelle vetrine sono esposti anche gasteropodi, brachiopodi, beleamnitici, aptici e bivalvi. Di particolare interesse è un piccolo pesce vissuto nel cretacico circa 90 milioni di anni fa e fossilizzato in una lastra di roccia argillosa scura. Su alcune ammoniti sono visibili cristalli di pirite, un solfuro di ferro, e di calcite, i minerali più comuni della zona insieme al gesso.
Preistoria
In una sala del Museo sono presentate le caratteristiche ambientali dell’area di Frasassi nel pleistocene superiore, cioè in quel periodo compreso tra 130 mila e 10 mila anni fa, lungamente interessato da un clima molto freddo. Era, infatti, in corso l’ultima glaciazione intercalata da periodi con temperature meno rigide detti interglaciali.
Le ricerche condotte sui sedimenti dei terrazzamenti fluviali, sui detriti e nei depositi calcarei di travertino, hanno portato al rinvenimento di numerosi resti di animali, come piccoli gusci di molluschi, ossa, denti e di piante come parti legnose, pigne, semi, foglie e pollini.
Questi ritrovamenti hanno fornito numerose informazioni sulle caratteristiche ambientali della zona nella preistoria.
Gran parte dei resti sono testimonianze di organismi vissuti in un clima molto più freddo dell’attuale. L’ambiente presentava una vegetazione simile a quella che oggi troviamo nelle steppe e nelle tundre del nord dell’Europa e dell’Asia, che sono visibili nelle illustrazioni. L’esplorazione delle numerose cavità carsiche della zona da parte di speleologi e archeologi mostra che l’area era popolata nei periodi freddi da stambecchi e camosci, di cui sono esposte alcune ossa e denti, e in seguito da alcuni mammiferi di piccola e media taglia, di cui sono visibili sulla destra alcuni crani. Un altro animale molto comune a Frasassi in epoca preistorica, era l’orso nelle due specie: orso speleo e orso bruno. In unavetrina sono esposti un cranio completo e un frammento di osso della zampa di orso speleo o delle caverne, animale oggi estinto. Il suo nome deriva dalla straordinaria frequenza di suoi resti nei sedimenti e nei depositi delle grotte. Al centro della sala vi è uno scheletro completo di orso bruno. Questi animali si rifugiavano in grotta in occasione del letargo e tal volta vi morivano rimanendo intrappolati in pozzi fangosi non riuscendo a tornare all’esterno.
Pleistocene.
Due plastici mostrano l’aspetto della gola di Frasassi nella preistoria e di adesso; in quello di sinistra è illustrato l’aspetto della gola di Frasassi durante un’era glaciale, la valle si presentava più ampia e meno incisa dal fiume Sentino e molto povera di vegetazione. Durante l’inverno l’acqua gelava all’interno delle rocce calcaree, fratturate in superficie provocando il distacco di grandi quantità di detriti. Questi riempivano il fondo valle mentre all’interno delle montagne si andavano formando complessi ipogei.
Il plastico di destra mostra la gola come appare oggi, in un periodo interglaciale più caldo e umido, il fiume ha maggior energia e capacità erosiva perché la produzione di detrito è trascurabile, i versanti sono stabilizzati anche per la presenza di una fitta vegetazione. Durante l’inverno l’acqua gelava all’interno delle rocce calcareenel plastico di destra si può come era la gola di Frasassi appare oggi, in un periodo interglaciale più caldo e umido, il fiume ha maggior energia e capacità erosiva perché la produzione di detrito è trascurabile, i versanti sono stabilizzati anche per la presenza di una fitta vegetazione. L’azione erosiva del fiume nell’incisione della gola è stata sempre favorita sia dalla presenza di numerose discontinuità nel calcare massiccio, come faglie e fratture, sia dal contemporaneo continuo sollevamento dell’aria, che prosegue tuttora e che possiamo stimare oggi in alcuni decimi di millimetro all’anno.
Il Plastico carsico
Il plastico esposto raffigura un sistema di cavità carsiche. In alcune regioni, l’affioramento in superficie di rocce solubili all’azione dell’acqua, come i calcarei di Frasassi, porta con il tempo alla formazione di un sistema di cavità sotterranee. Questo fenomeno noto come carsismo, è particolarmente sviluppato in Italia, oltre che nelle alpi orientali, appunto nella zona del carso, che da il nome al fenomeno, anche in puglia e nell’Appennino centrale. Nella zona di Frasassi sono oggi conosciute 80 cavità. Le rocce calcaree stratificate e molto fratturate, facilitano la penetrazione dell’acqua in profondità. L’acqua arricchita di anidrite carbonica presente nell’aria e nei sottosuoli soprastanti, e quindi resa leggermente acida, esercita un’azione chimica corrosiva che porta alla dissoluzione del carbonato di calcio, componente dei calcarei. Questo provoca il progressivo allargamento delle cavità anche per l’azione meccanica di erosione esercitata dall’acqua e dei suoi componenti.
Si formano infine complessi ipogei davvero imponenti e dalle forme spettacolari, come quelle della “Grotta Grande del Vento”.
A Frasassi le grotte si sono formate durante il pleistocene, un epoca geologica che ha inizio 1.800.000 anni fa, e termina 11.000 anni fa. Il complesso ipogeo presenta 8 livelli geologici. L’incontro tra le acque bicarbonate del fiume sentino e quelle minerali solfuree provenienti dal basso, hanno costruito nel corso dei millenni le grotte.
Seguendo l’approfondimento del fiume sentino le grotte, si sono formate partendo dall’alto verso il basso in concomitanza con i periodi di stasi del fiume sentino si sono formati una serie di piani carsici orizzontali sovrapposti, estesi per decine di km di lunghezza e collegati da pozzi verticali. Quando la falda freatica si abbassa sul soffitto, sulle pareti e sul pavimento liberate dall’acqua, si forma una serie di concrezioni, come stalattiti, stalagmiti, colonne e colate, che assumono diverse forme.